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Storie cliniche ed umane: Carla e la sua “schizofrenia”

Mi è spesso capitato di ripensare a Carla durante i lunghi anni che mi separano dal tirocinio. Ero piuttosto giovane allora, mi ero appena laureata e frequentavo il Dipartimento di Salute Mentale. Era il mio primo semestre di tirocinio. Non mi sentivo senza armi e senza nessuna pratica, come spesso accade ai nostri giovani laureati, perché quando avevo iniziato l’Università mi ero messa in testa che ne sarei uscita sia con competenze pratiche che teoriche. Per raggiungere il mio obiettivo, mi ero data da fare accettando tutte le attività pratiche che l’Università proponeva e ne andavo a cercare per mio conto in modo che, alla data di laurea, avrei già avuto al mio attivo alcune esperienze.

Il mio primo semestre di tirocinio fu davvero bello, cosa che non si ripeté per il secondo. Feci talmente tante esperienze da mettere un bel po’ di cose nel mio bagaglio personale.

Ma torniamo a Carla. Era ricoverata in reparto e, come spesso accadeva, mi chiedevano di andare a fare un colloquio con gli ospiti del momento e poi di descrivere qualcosa nella cartella clinica. Carla era una donna anziana (70 anni, circa, se non qualcosa in più), con i capelli grigi e tirati indietro, le sopracciglia grigie e folte, una donna non particolarmente alta e piuttosto robusta, come le donne della mia terra, o meglio come l’immaginario che mi sono formata di come dovevano essere state, loro e la mia terra, alla fine dell’Ottocento. Guardando lei mi sembrava di rivedere la fotografia di mia nonna (anche se mia nonna era più minuta) o alcuni personaggi delle commedie di De Filippo. Sapeva di terra, nella maniera più nobile. Veniva da una terra bellissima, selvaggia, agricola, vicino al mare, un mare immenso, azzurro, assolato. Le sue radici affondavano dunque nella terra ed in un passato fatto di madri e di figli da crescere, di lavoro duro e di sorelle maggiori che si occupavano di sorelle e fratelli minori.

Carla era ricoverata con la diagnosi di “schizofrenia”. Si trattava di una schizofrenia insorta in età avanzata, circa un paio di anni prima. In precedenza, Carla non aveva mai avuto problemi di natura simile. Ma io l’avevo incontrata ed a me sembrava davvero una “strana” schizofrenica. Per non dire che a me non sembrava schizofrenica affatto.

Avevo parlato con lei la prima volta, prima di vedere la diagnosi, e mi era sembrata una persona triste, stanca ma a modo, composta. Non aveva voglia di fare nulla in casa, il letto rimaneva disfatto, i servizi di casa (quelli che qui al Nord chiamano i “mestieri”) venivano disattesi, la sua stessa igiene personale in alcuni momenti lasciava a desiderare, non aveva voglia di cucinare. Al termine della mattina, riusciva a concludere qualcosa ma con grande fatica e tanta svogliatezza. Eppure parlava in un modo dolcemente sommesso, stancamente rassegnato, ma nulla tradiva in lei i segni di una schizofrenia.

Guardando la diagnosi, mi era dunque preso un colpo. D’accordo, non potevo avere l’esperienza dei medici del reparto, ciononostante pensavo che, in contropartita, potevo anche avere, proprio per questo, uno sguardo più limpido. Dovevo conoscere come mai era stata ricoverata e perché quella diagnosi.

Venni dunque a sapere che Carla era stata ricoverata per i sintomi depressivi che mi aveva raccontato e che il marito, anziano anch’egli, non riusciva più a gestire, ma seppi anche che … sentiva delle voci e che era questo il motivo alla base della diagnosi, voci da lei riconosciute, fastidiose e riportate con immenso dolore.

Ebbi più di un colloquio con Carla. Mi disse che queste voci parlavano male di lei, dicevano ogni sorta di ingiurie verso la sua persona, arrivando ad usare parole sconce ed offensive, e che la infastidivano molto. Ne era talmente addolorata che andava deprimendosi sempre di più ed ogni giorno che passava stava sempre peggio.

Siccome non ero soddisfatta né della diagnosi né delle informazioni che avevamo e, siccome mi lasciavano dialogare con i pazienti, decisi di approfondire la sua storia di vita, quella storia ricca di significati, di logica, di colori, di atmosfere che tanta parte di chi siamo riesce a spiegare.

Ecco, dunque, apparire l’infanzia vissuta con il mare in lontananza, sullo sfondo la miseria di chi si occupa di terra e vive una vita dura, una casa umile, la madre con tanti figli, lei sposata tristemente perché non ha mai avuto bambini, sua sorella più piccola, la chiameremo Giada, di cui sua madre non aveva potuto occuparsi e che, essendo Carla già sposata all’epoca, era stata lei a crescere e trattare come una figlia. Non ricordo più se la madre di Carla e di Giada nel frattempo era morta oppure si era ammalata o ancora aveva troppi figli a cui badare.

I giorni trascorrevano ed io mi convincevo sempre di più che Carla non era schizofrenica. La vedevo parlare con gli altri pazienti, anche francamente psicotici, come Francesco, e mi sembrava una donna particolare, ci parlava con una tranquillità, una dolcezza, una naturalezza tale da indurre a fermarmi e ad ascoltare i loro dialoghi quando non a parteciparvi. Certo, bisognava mantenere un tono di voce adeguato perché Carla da un paio di anni circa si era accorta di avere un problema di udito, ci sentiva sempre meno, ma, per il momento, non bisognava “urlare” ed il dialogo era ancora possibile entro limiti soddisfacenti.

Dicevo, dunque, che i giorni trascorrevano ed io riflettevo … Nella schizofrenia paranoidea i pazienti mantengono buoni livelli cognitivi rispetto alle altre forme di schizofrenia, ciononostante … non ero convinta. Carla aveva iniziato in un preciso momento a peggiorare, l’età di esordio era piuttosto recente, la depressione ingravescente, la stanchezza, la voglia di non vivere e non curarsi né di sé né del suo ambiente era divenuta sempre più grave da quel momento. Nel frattempo io continuavo a parlare con lei …

A poco a poco compresi che il desiderio di maternità di Carla era stato fortissimo e dolorosamente frustrato ad ogni nuova mestruazione, che era l’unica aspirazione della sua vita di giovane donna e di adulta, che la ferita che la vita le aveva inferto le bruciava ancora vivamente, che aveva avuto una figlia-sorella che non aveva tamponato, se non in parte, il desiderio di avere un figlio tutto suo. Non c’era stata la gioia di procreare, quella di essere essa stessa fonte di vita e quella di rendere contento il marito che, pure, era rimasto con lei. E di sicuro c’era stato il confronto con le altre donne, con le loro continue maternità, in un mondo che era fatto quasi esclusivamente di figli, vita familiare e lavoro nei campi.

Quando chiesi dove fosse Giada in quel momento, mi venne risposto che da qualche anno (guarda caso, proprio da quando ebbe inizio il suo percorso in discesa), essendosi sposata, era andata a vivere lontano. Le chiesi quando avevano modo di vedersi. Mi rispose che vedersi era un evento raro ma che riuscivano a sentirsi per telefono. Appariva chiarissimo, sentendola parlare, che il distacco da Giada era stato un dolore altrettanto grande, sapeva che aveva dovuto andar via insieme al marito per lavoro ma i suoi occhi erano lucidi e le scappavano le lacrime mentre parlava. Non poteva neanche condividere con Giada la crescita dei suoi figli, i suoi nipotini.

Chiedendole della religione, mi apparve chiaro anche che la sua fede era molto profonda, andava in Chiesa in modo assiduo. Approfondii questo punto che destò il mio interesse. Conoscendo la mentalità di un certo gruppo sociale per esserci cresciuta, mi chiesi come Carla avesse potuto far conciliare la sua fede con il fatto che Dio non aveva voluto concederle figli. Così, approfondendo la sua frequentazione della Chiesa, gli orari delle messe, la quotidianità della sua partecipazione, il tipo di donne che poteva frequentare la Chiesa a quell’ora (si trattava di sicuro di un pubblico diverso da quello della sola domenica mattina), l’entrata in Chiesa e l’uscita, ad un certo punto venne fuori la sua rabbia e l’orgoglio ferito verso quello che le altre donne, all’uscita dalla Chiesa, osavano pensare e dire di lei …

Io, stupita e meravigliata, mi accorsi che “quell’immaginario” arrivava alle stesse conclusioni di cui la accusavano le sue voci interiori! Sparlavano del fatto che non aveva avuto figli, che doveva essere stata una cattiva donna se Dio non aveva voluto concederglieli, che era stata una punizione meritata, ma Carla, convinta di quello che le donne dicevano, convinta che queste fossero davvero le parole pronunciate verso di lei, in realtà non si figurava che tutto era nella sua testa di donna ferita, di donna offesa dalla vita, umiliata da Dio. Carla non si accorgeva e non sapeva spiegare, nel suo fragile e semplice mondo mentale, che quelle che lei chiamava “voci”, non erano allucinazioni come le intendevano gli psichiatri del reparto, ma erano voci attribuite ad altri che poi le rimbombavano dentro la testa ossessivamente, pungendo e stuzzicando la sua ferita ma anche alimentate e “mantenute pungenti e stuzzicanti” in virtù di essa.

Allora si trattava davvero di schizofrenia? Per la precisione, si trattava davvero di schizofrenia paranoide? Ad un certo punto dei nostri colloqui, sistemando tutti i dati che avevo, mi era saltato all’occhio un dato, una informazione e ricordai che sul mio libro di Psicologia Clinica era scritto di fare molta attenzione alle diagnosi psicopatologiche nelle persone anziane perché aumenta il loro grado di paranoia non in virtù della presenza di psicosi ma in virtù dello sviluppo fisiologico di una certa sordità. In questo caso gli anziani possono guardare gruppi di persone e, su uno sguardo, anche poco significativo o casuale, rivolto a loro, possono ricamare quello che non è. Un po’ come facciamo tutti quanti noi quando attribuiamo un significato alla forma di una nuvola o quando vediamo qualcosa di preciso in una macchia. E, guarda caso, Carla aveva problemi di udito ingravescenti, così come la sua depressione e così come le voci che incalzavano sempre di più. Inoltre, avevano avuto inizio nello stesso periodo!!

Dal mio punto di vista, dunque, Carla era stata ed era una donna infelice, la cui ferita sanguinava ancora, dolorante per la perdita di Giada che si era trasferita lontano e sempre più sorda con il procedere degli anni. Andando in Chiesa, si figurava che le donne dicessero male di lei proiettando su di loro (e quindi attribuendo loro) i suoi stessi pensieri ed ampliando così la sua disperazione che Dio avesse voluto punirla in quel modo … per chissà quali atti che, figurati nella sua mente o reali, io non conosco. Pian pianino, infatti, Carla si stava allontanando dalla frequentazione della Chiesa e non voleva uscire neanche più per fare la spesa … per non incontrare le altre donne. Ma le voci che aveva figurato in bocca alle donne che, invece, avevano avuto figli, non erano frutto della schizofrenia ma frutto di una ferita che non si era mai rimarginata e che si riproponeva adesso, in concomitanza di una serie di circostanze ed al termine della sua vita, in una maniera affatto nuova, dolorosa e triste.

Carla mi è rimasta impressa con l’affetto che ho nutrito e nutro verso molte persone che ho conosciuto negli ultimi 25 anni in cui mi sono dedicata alla mia materia, una delle materie più belle ed umanamente vive, una delle materie che si occupano con serietà della vita umana e dei suoi molteplici significati, colori ed atmosfere. Non ho mai parlato apertamente di lei e del mio modo di vedere la sua vita e la sua situazione con i medici del reparto, neanche con la mia tutor, psicoterapeuta, di cui pure mi fidavo. I medici, pensavo, non avrebbero potuto accogliere e non avrebbero accettato di condividerle con me, e, per quanto riguarda la mia tutor, riconoscendola io come una persona molto valida ma anche piuttosto impulsiva, dotata di spirito “guerriero” e con un sentimento di non accettazione e stima da parte dei colleghi (cosa, tra l’altro, non vera), decisi di non condividere con lei. Questo non significa che non feci nulla, la mia fu una strategia più “soft”: sondai il terreno sia con Carla, sia con il marito con cui ebbi alcuni colloqui, sia con i medici per vedere chi di loro avrebbe avuto disponibilità ad approfondire, ma quello che ne ricavai fu un pensiero che riassumerò in questa frase: “non ci sono grandi risorse personali e familiari, si tratta di una persona anziana, lasciamo stare le cose così come stanno”. Cercai anche di capire se non si potesse far qualcosa per migliorare il suo udito, ma non ho mai ben capito se erano le indisponibilità economiche della famiglia, piuttosto che una diagnosi senza possibilità di cura o altri tipi di motivi che facevano sembrare la mia domanda priva di senso. Decisi dunque di non insistere oltre.

Mi chiedo però se oggi non ci fosse stata una prospettiva diversa, anche per una persona anziana come lei. Ricordo un intervento ad un convegno che seguii successivamente e che trattava proprio della terapia psicologica con gli anziani facendo riferimento ai pregiudizi imperanti fino ad allora sugli anziani ed al fatto, invece, che si tratta pur sempre di persone che, essendo vissute per tanti anni, devono aver comunque più risorse di quelle che non ci immaginiamo. Se penso alla mia esperienza successiva, se penso alle pazienti non più giovanissime che ho seguito, riconosco la veridicità di quell’intervento al convegno.

Ma ora? Non è più possibile far niente per lei. Eppure continua ad essere presente nei miei pensieri, al punto da avermi indotto a scrivere di lei e, spero, di averla descritta con la tranquillità ed il rispetto che questa donna merita.

(Maria Cristina Foglia Manzillo)

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