Il disturbo d’ansia sociale, di cui qui ci occupiamo, rientra, secondo la classificazione del DSM 5 e come già anticipato nell’introduzione, tra i disturbi d’ansia insieme a
- Disturbo d’ansia da separazione
- Mutismo selettivo
- Fobia Specifica
- Disturbo d’ansia sociale
- Disturbo di panico
- Agorafobia
- Disturbo d’ansia generalizzato
- Disturbo d’ansia da condizione medica
- Altro Disturbo d’ansia specifico
- Disturbo d’ansia non altrimenti specificato
LA FUNZIONE ADATTIVA DELL’ANSIA
Ribadiamo la precisazione relativa all’ansia e alle sue connotazioni, già accennata nell’introduzione; qui con attenzione più specifica per il disturbo d’ansia sociale.
Notavamo come spesso l’ansia sia percepita come negativa in assoluto; in sé e per sé patologica.
In realtà, a ben pensarci, essa ha svolto nel corso dell’evoluzione dell’uomo, e continua a svolgere nell’esistenza di ognuno, una funzione adattiva.
Consente, infatti, di attivarsi in modo da cogliere e far fronte a pericoli e compiti.
Per quanto riguarda più specificamente l’ansia sociale, la teoria evoluzionista evidenzia come si tratti di una forma di preoccupazione circa l’apprezzamento e l’accettazione da parte degli altri nei nostri confronti. Tale preoccupazione avrebbe indotto i nostri antenati a comportarsi in modo gradito ai loro simili. Questo avrebbe consentito la permanenza dell’individuo all’interno di un gruppo dandogli, di conseguenza, maggiori garanzie di difesa dai predatori, quindi di sopravvivenza e riproduzione.
Nella vita quotidiana un minimo livello di preoccupazione per ciò che gli altri pensano di noi ci consente di adattarci alla vita civile e alle sue convenzioni, ad esempio quella di presentarsi in pubblico adeguatamente lavati e vestiti.
Il disturbo d’Ansia Sociale costituirebbe, dunque, l’estremizzazione di una paura che ha svolto e continua a svolgere una funzione adattiva.
DEFINIZIONE E SINTOMI
E’ una marcata paura o ansia rispetto a una o più situazioni sociali in cui l’individuo è esposto al possibile giudizio degli altri ( es. conoscere persone non familiari, essere osservato mentre mangia o beve, durante una prestazione, quale un discorso).
L’individuo teme di mostrare i sintomi di ansia e che verranno valutati negativamente. Evita le situazioni sociali o le sopporta con intensa paura o ansia.
La paura o ansia è sproporzionata alla minaccia reale rappresentata dalla situazione sociale e al contesto socio-culturale.
La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti, della durata di 6 mesi o più e causano disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti del funzionamento.
Nel caso la paura sia limitata a parlare o esibirsi in pubblico, si parla di Disturbo d’Ansia Sociale Solo Performance (DSM 5)
Le situazioni temute possono essere varie e di tipo formale o informale.
Ad esempio, parlare in pubblico, partecipare ad una festa, telefonare a persone che non si conoscono bene, incontrare o cercare di conoscere persone sconosciute, parlare con autorità, esprimere dissenso, riportare ad un negoziante un oggetto, rifiutare proposte da parte di venditori insistenti, mangiare o bere davanti ad altre persone, essere osservati mentre si lavora o si scrive, usare bagni pubblici.
Il Disturbo d’Ansia Sociale è un disturbo molto diffuso ma spesso trascurato.
Il suo non riconoscimento può avere pesanti conseguenze.
Esso, infatti, riduce il livello di soddisfazione per la propria vita e, nei casi più gravi, può portare all’abbandono scolastico, alla disoccupazione, alla dipendenza finanziaria, all’abuso di alcool, droghe, farmaci, alla depressione, a pensieri suicidari.
A volte, tuttavia, si verificano casi in cui, benché presente, il Disturbo d’Ansia Sociale non soddisfa i suddetti criteri diagnostici dell’interferenza con il funzionamento o il benessere dell’individuo perché costui organizza la propria vita in modo compatibile con la fobia stessa.
Turner, Beidel e Cooley (1994) parlano di bozzolo dell’ansia sociale per descrivere le restrizioni che i soggetti impongono alla propria esistenza per continuare a convivere con il proprio disturbo.
Il clinico può, in questi casi, tentare di stimolare una riflessione e presa di coscienza, da parte del paziente, dei limiti imposti da tali comportamenti di evitamento, pur nel rispetto del suo libero arbitrio.
Il Disturbo d’ansia sociale in età evolutiva
Nei bambini, l’ansia deve manifestarsi con i coetanei e non solo durante le interazioni con gli adulti e può essere espressa piangendo, con scoppi di ira, freezing (congelamento/blocco) o stando in disparte in situazioni sociali.
EZIOLOGIA
Oggi è ampiamente condivisa l’ipotesi secondo cui alla base di tutti i disturbi psichici vi è l’interazione diatesi-stress. Ovverosia una predisposizione, geneticamente determinata, a sviluppare un certo disturbo in seguito all’esposizione a fattori ambientali stressanti.
Coerentemente con questa concezione, all’origine del Disturbo d’Ansia Sociale vi sarebbe un’interazione fra fattori genetici predisponenti e fattori ambientali.
Fra questi ultimi risultano rilevanti, nella storia di molti pazienti, tre tipi di esperienze:
1) Un singolo, forte evento traumatico o una serie di piccoli episodi in cui il paziente ha vissuto, in relazione a situazioni sociali o prestazionali, umiliazione o imbarazzo.
2) Un apprendimento osservativo. Ovverosia l’aver avuto a che fare con adulti (un genitore o un parente stretto) con Disturbo d’Ansia Sociale.
3) Il trasferimento dell’informazione. Ovverosia, l’essere stati esposti abitualmente a messaggi comunicanti la pericolosità di determinate situazioni (ad esempio: “Stai attento… è pericoloso”) e del giudizio altrui (“Gli altri sono sempre pronti a giudicarti”).
MODELLO COGNITIVO DELLA FOBIA SOCIALE
Secondo il modello cognitivista di Clark e Wells (1995; Wells e Clark,1997), l’individuo con Disturbo d’Ansia Sociale è pervaso da un forte desiderio di fare buona impressione sugli altri e dal timore di non riuscirvi, con conseguenze negative anche sul giudizio del soggetto su se stesso.
L’ansia che deriva da queste premesse suscita un’attivazione fisiologica (rossore, sudorazione, tremito, balbettio, vuoto mentale) e pensieri automatici negativi (Es.”Tremerò. Tutti se ne accorgeranno e mi considereranno uno stupido”; “Dirò qualcosa di sbagliato”).
La concentrazione, da parte dell’individuo, su tutti questi aspetti ne distoglie l’attenzione dalle informazioni in grado di disconfermare le sue convinzioni.
Può, inoltre, arrivare ad interferire effettivamente con la prestazione rendendola scadente.
Si parla, in questo caso, di profezia che si autoavvera.: il timore di comportarsi in modo inadeguato distrae ed agita l’individuo, impedendogli di comportarsi in maniera adeguata.
L’esperienza fallimentare che ne consegue conferma attese e convinzioni negative in un circolo vizioso che funziona da rinforzo al disturbo d’ansia.
TRATTAMENTO
Il trattamento si concentra, secondo il summenzionato modello, sull’individuazione, esplicitazione e falsificazione dei pensieri automatici negativi.
Tale falsificazione avviene sulla base di un esame di realtà finalizzato alla raccolta di prove relative alle convinzioni disfunzionali del paziente (Es.: Qual è la prova che tutti la stanno guardando?”).
Importante è anche far valutare al paziente interpretazioni alternative degli eventi (Es: “Ritiene che quella persona non le abbia rivolto la parola perché la considera uno stupido. Potrebbero esserci altri motivi?… Per esempio mi ha riferito che quella persona rischiava di perdere il treno. E’ possibile che fosse molto di fretta e preoccupata di far tardi?”).
Dal momento che il Disturbo d’Ansia Sociale si caratterizza anche per comportamenti di evitamento, è prevedibile che i pazienti che ne soffrono non abbiamo avuto la possibilità di sviluppare le competenze necessarie per affrontare adeguatamente le situazioni temute.
Un’ulteriore fase del trattamento prevede, pertanto, di favorire l’acquisizione delle competenze necessarie attraverso istruzioni e role playing.
Si procede, poi, all’esposizione alle situazioni ansiogene. Esposizione graduale e accompagnata, possibilmente dal terapeuta.
Il terapeuta dovrà, inoltre, tener ben presente quanto possa essere stato faticoso e motivo di ansia per il paziente rivolgersi a lui per una consulenza/trattamento. Dal momento che si è trattato proprio di affrontare una situazione temuta: l’incontro con un estraneo che, per di più, può apparirgli come una figura d’autorità, a motivo del suo ruolo e della sua professione.
Se la cura della relazione, l’accoglienza e la capacità di mettersi nei panni dell’altro sono aspetti che il professionista non deve mai trascurare, in questo caso essi diventano ancora più salienti. Così come la sensibilità di notare e valorizzare lo sforzo che il paziente è riuscito a compiere per arrivare fino al nostro studio.
CASO CLINICO
Il seguente caso clinico costituisce un esempio di Disturbo d’Ansia Sociale Solo Performance. Viene pubblicato previa visione ed autorizzazione da parte del paziente[1].
Giorgio, 23 anni. Ha una ragazza e pochi amici.
Studia economia. Si impegna molto ed ottiene ottimi risultati.
Vive, però, lo studio con una certa ansia. Non si sente mai all’altezza della situazione.
Prova disagio a confrontarsi con i compagni di università che percepisce sempre come migliori di lui: dal punto di vista intellettivo, nell’aspetto fisico, nelle abilità sociali.
Non gli piace, quindi, frequentare le lezioni anche se ha stretto amicizia con un gruppo di ragazzi con cui si trova bene.
Con il passare degli anni e degli esami superati, l’ansia, invece di diminuire, aumenta fino a che, a cinque esami dalla laurea, Giorgio si blocca.
Non ha il coraggio di presentarsi agli esami nonostante sia perfettamente preparato.
In seduta racconterà di essere paralizzato dal timore di “perdere il filo del discorso”; di “dimenticarsi tutto” di fronte al professore.
Quando, finalmente, riesce a recarsi a sostenere un esame, il vuoto di memoria temuto si verifica.
Dura pochi secondi.
Poi Giorgio si riprende e porta a termine brillantemente l’esame ma il timore che il fatto ricapiti lo blocca tanto da interferire, a questo punto, non solo con la capacità di recarsi agli esami ma anche con la concentrazione e lo studio.
Il ritardo che inizia ad accumulare lo porta fuoricorso e gli suscita vergogna. Questo lo inibisce in ogni relazione sociale.
Il timore di essere giudicato “un incapace, un fallito, un mantenuto che non fa niente” lo induce a limitare al massimo le uscite, gli incontri e i contatti con gli amici.
Tale inattività lo fa sentire ancora meno capace.
Trova lavoro come addetto alle pulizie in un supermercato, unica mansione a cui si senta all’altezza.
A questo punto, ha, però, la possibilità economica di rivolgersi ad uno specialista.
L’iniziale domanda che Giorgio porta in seduta riguarda il desiderio di tornare a sostenere gli esami.
Da qui si parte per arrivare all’esplicitazione del malessere connesso all’interruzione del percorso di studi.
Giorgio, cioè, non si rassegna a rinchiudersi nel bozzolo della sua ansia sociale perché le rinunce che questo comporta lo fanno soffrire.
Come vedremo, questo, costituirà una risorsa essenziale per il superamento del disturbo.
Dai primi colloqui emerge un quadro di relazioni famigliari in cui i giudizi positivi su di lui sono sempre stati incentrati sul suo essere bravo a scuola.
Una significativa cognizione riferita dal ragazzo è la seguente: “Io sento di valere, di essere degno di stare al mondo, solo se sono bravo, se do dei risultati, se gli altri sono fieri di me, altrimenti non sono niente, sono una schifezza … posso guardarmi allo specchio solo se so di fare il mio dovere, di meritarmi di stare al mondo”.
Giorgio fa, dunque, coincidere il suo valore come essere umano con la stima che gli altri gli manifestano.
Tale convinzione appare così radicata ed influente nella sua esistenza, da poter essere considerata una struttura cognitiva, ovverosia una cognizione centrale e basilare; un filtro che influenza percezioni e interpretazioni degli eventi, così come le scelte di vita.
Facilmente tale giudizio diventa fattore ansiogeno. E lo diventa al punto di paralizzarlo.
Il lavoro con il paziente parte dall’ultimo anello della catena attivata dai pensieri disfunzionali: l’impossibilità di presentarsi agli esami.
Si decide di visualizzare tale situazione immaginando lo scenario peggiore; cioè che si riverifichi l’evento tanto temuto: il vuoto di memoria.
Si analizzano i pensieri connessi.
“Se mi ricapitasse di non sapere quello che devo dire, sembrerei un incapace: una persona che non sa nemmeno affrontare le minime prove della vita, quale può essere un banale esame universitario. Così apparirei al mio interlocutore e, in primo luogo, a me stesso. Confermerebbe la pessima opinione che ho di me.”
“Come ti sentiresti?”
“Uno schifo”
“E adesso come ti senti?”
“Uno schifo ancora peggiore: uno che non fa niente nella propria vita. Che butta via i piccoli talenti che ha e l’occasione di studiare che gli è stata regalata”.
Notiamo lo stile autosvalutante del paziente che minimizza le proprie risorse definendo piccoli i propri talenti.
Questo aspetto è coerente con la preoccupazione, tipica del disturbo d’ansia sociale, di non poter far fronte alle aspettative altrui.
Si invita il paziente a tratteggiare le alternative a sua disposizione.
Ne identifica due: rischiare di fare scena muta e di vedere confermate le opinioni negative che ha di sé oppure evitare di affrontare ciò che lo spaventa e permanere nello stato attuale.
Giorgio appare veramente prostrato, abbattuto.
Nella seduta successiva dice di aver pensato a lungo al precedente colloquio. Si sente come se avesse “toccato il fondo … ho realizzato, alla luce delle domande che mi ha posto la scorsa volta, che non credo di potermi sentire peggio di come sto ora. Non ho niente da perdere”.
Decide di riprendere in mano i tre esami che sta cercando di preparare da più di un anno e si iscrive al primo appello disponibile: li dà tutti nella stessa settimana con ottimi voti.
Questo evento costituisce un rinforzo al suo impegno e lo induce a proseguire e ad interrompere la strategia di evitamento fino a quel momento adottata.
Ovverosia l’effetto della gratificazione del superamento dell’esame è maggiore del sollievo dall’ansia ottenuto evitandolo.
Torna in seduta dicendo che ora non ha più intenzione di lasciarsi sopraffare dalle difficoltà: “Ne affronterò una per volta. Devo solo mettere un piede davanti all’altro senza guardare sempre la cima della montagna che devo scalare”.
Giorgio, cioè, anticipa una parte del lavoro che sarebbe stato fatto in seduta, scegliendo autonomamente una strategia di coping (fronteggiamento): suddividere un obiettivo in sub-obiettivi.
Tale strategia consente di ridurre l’ansia e di godere degli effetti motivanti e rasserenanti di una buona riuscita in una singola prova.
Arriverà, a questo punto, alla laurea, senza più intoppi.
In questo caso, un semplice esame di realtà e l’esplicitazione dei pensieri inconsapevoli sottesi alle emozioni e paure del paziente ha consentito di metterne in luce la contraddizione: evitare la situazione temuta procurava stati d’animo e colpevolizzazioni peggiori di quelli di un eventuale cattivo esito dell’esame.
Non sempre è possibile che la situazione di stallo provocata da un Disturbo d’Ansia Sociale si sblocchi velocemente come in questo caso.
Le risorse del paziente, latenti anche se inutilizzate, costituiscono una variabile decisiva a questo proposito.
Per quanto riguarda, in particolar modo, il caso di Giorgio, le risorse a disposizione erano numerose: il forte e autentico interesse per il suo corso di studi e la professione a cui gli avrebbe dato accesso; la lucidità intellettiva necessaria a comprendere, da un punto di vista logico e razionale, distorsioni e disfunzioni dei pensieri generanti il disturbo d’ansia; la capacità di aprirsi ad una relazione di fiducia con lo psicologo e di seguirlo, inizialmente proprio sulla base della fiducia, in un percorso di riflessione su di sé, del proprio presente e passato.
Inoltre, come già detto, i comportamenti di evitamento degli esami suscitavano in Giorgio una grande sofferenza perché incompatibili con un’altra sua struttura cognitiva: l’obbligo morale per un essere umano di “non sprecare i propri talenti”.
Tale struttura cognitiva ha costituito un’ulteriore, determinante risorsa.
Giorgio, appena riprese in mano le redini della sua vita, decide di interrompere le sedute.
Lascia, tuttavia, a mio parere, incompleto il lavoro su di sé: intatta resta, infatti, in lui la convinzione secondo cui il suo valore come essere umano coincide con il livello delle sue prestazioni.
Questo potrebbe costituire un possibile fattore di vulnerabilità.
Paola Brera (psicologa)
BIBLIOGRAFIA
Beidel, D.C., Turner, S.M. (1998). Timidezza e fobia sociale. McGraw-Hill
Turner, S.M., Beidel, D.C. and Cooley, M.R.(1994). Social Effectiveness therapy: A program for overcoming social anxiety and social phobia. Mt. Plesant, SC: Turndel.
Clark, D.M. & Wells, A. (1995). A cognitive model of social phobia. In: R. Heimberg, M. Liebowitz, D.A. Hope & F.R. Schneier (Eds.), Social phobia: Diagnosis, Assessment and treatment. New York: Guilford Press.
Wells, A. & Clark, D. M. (1997). Social phobia: a cognitive approach. In: D.C.L. Davey (Ed.), Phobias: A Handbook of description, treatment and theory. Chichester: Wiley.
[1] Il nome è di fantasia e sono stati omessi dati sensibili.